Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXII – 24 maggio 2025.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Come la morfologia dei solchi corticali è in rapporto col ragionamento in bambini e adolescenti. Hakkinen, Voorhies e colleghi in precedenza (2021) hanno dimostrato che la profondità di tre piccoli solchi della corteccia prefrontale laterale (LPFC) è associata alle prestazioni nel ragionamento dei bambini; ora hanno condotto uno studio per scoprire il meccanismo che lega la morfologia dei solchi della corteccia cerebrale alla funzione cognitiva. A questo scopo hanno indagato la connettività funzionale fra i solchi della LPFC e fra i solchi della corteccia parietale laterale (LPC), studiando il cervello degli stessi partecipanti allo studio di quattro anni fa. In particolare: 43 volontari (20 femmine e 23 maschi) di età compresa tra i 7 e i 18 anni.

La morfologia dei solchi si è dimostrata in tanti modi rilevante per la connettività funzionale: ad esempio, gli autori dimostrano per la prima volta che la maggiore profondità dei solchi è spesso associata a una più alta centralità di rete. L’insieme dei dati emersi indica che la morfologia dei solchi è rilevante per la connettività funzionale (CF) e che, ancorare la CF alla morfologia individuale dei solchi, fornisce elementi di conoscenza nello studio del ragionamento in età pediatrica. [Journal of Neuroscience – AOP doi: 10.1523/JNEUROSCI.0726-24.2025, 2025].

 

L’immaginazione mentale di un’azione ne migliora la materiale esecuzione motoria. La prefigurazione mentale di atti motori può essere concepita in modo rigoroso per studiarne gli effetti sul comportamento. Questa è la definizione corrente di motor imagery o immaginazione motoria: simulazione mentale di movimenti senza esecuzione fisica. Vadim Nikulin, Magdalena Gippert e colleghi hanno dimostrato che l’immaginazione motoria può facilitare l’apprendimento non solo del movimento prescelto, ma anche dei movimenti a questo apertamente associati in sequenza.

I risultati di questo studio supportano l’uso rigorosamente definito della tecnica delle immagini mentali in riabilitazione e nello sport. [Cfr. PNAS USA 122 (20): e2423642122, 2025].

 

Il cervello di adulti traumatizzati psichicamente da bambini invecchia prima. Stefan Du Plessis e colleghi hanno studiato su un campione di 153 partecipanti (70% donne), includenti 69 adulti esposti a trauma nell’infanzia e 84 non esposti, l’età cerebrale basandosi su metodi di machine learning applicati alla risonanza magnetica nucleare (MRI). Gli adulti abusati sessualmente da bambini avevano in media un’età di 3.2 anni maggiore dell’età cronologica reale. Complessivamente, coloro che erano stati esposti a traumi psichici nell’infanzia, hanno presentato un accentuato invecchiamento cerebrale in età adulta. Questo risultato, da verificare in ulteriori indagini su altri campioni, suggeriscono che tra le conseguenze di traumi infantili vi sono il declino cognitivo anticipato e le patologie associate all’invecchiamento cerebrale. [Cfr. Brain and Behavior – AOP doi: 10.1002/brb3.70450, 2025].

 

La vitamina D3 ha rallentato l’invecchiamento e allungato il telomero e la vita. Un gruppo di ricerca del Mass General Brigham e del Medical College of Georgia ha sperimentato supplementi quotidiani di vitamina D3 ponendoli a confronto con quelli di acidi grassi Omega3. L’azione più evidente è stata sulla lunghezza del telomero cromosomico che, come è noto, è proporzionale alla durata della vita e si riduce con l’età. In sintesi: 1) la vitamina D3 ha rallentato di più di 4 anni l’accorciamento del telomero; 2) ha determinato protezione cellulare misurabile, corrispondente a più di 3 anni extra di salute del telomero; 3) il supplemento di Omega3 non ha prodotto effetti sulla lunghezza del telomero. [Am J of Clinical Nutrition 115(5):1311-1321, 2025].

 

L’11% della mortalità mondiale è dovuta a fumo di sigaretta: 7,3 milioni di decessi. I dati dell’OMS (WHO), a vent’anni dalla convenzione mondiale contro il fumo in difesa della salute e della vita, sebbene registrino in molti paesi una lieve riduzione del numero dei fumatori, ancora propongono una realtà allarmante e inaccettabile in un’epoca in cui il rischio e i danni causati da questo vizio – sostenuto dall’effetto della nicotina sul sistema VTA-NA – sono noti alla massima parte della popolazione. Se mezzo secolo fa i programmi di educazione sanitaria condotti nelle scuole italiane prevedevano spesso lezioni informative di medici che mostravano diapositive di lesioni istologiche e distruzioni macroscopiche causate da carcinomi broncogeni di tipo squamocellulare o a “cellule d’avena”, oggi si elencano oltre duecento quadri patologici potenzialmente mortali che hanno le molecole prodotte dalla combustione della carta e del tabacco quali elementi eziologici principali. Non manca l’informazione circa il pericolo. E nemmeno la conoscenza di dati di certezza epidemiologica: la durata media della vita del fumatore quotidiano è sempre inferiore ai 70 anni con picchi anche prima dei 50. A nostro avviso non si affronta un aspetto di importanza cruciale: l’insegnare alle persone che vogliono smettere a lavorare sulla propria coscienza, a cambiare stile di vita, a sostituire lo stimolo del “sistema a ricompensa” (VTA-NA) prodotto dal fumo da quello indotto da attività salutari come l’esercizio motorio e da attività gratificanti sviluppate in forma intellettuale, di lavoro o di gioco. [BM&L-International, 2025].

 

Il mistero delle scimmie che rapiscono i piccoli di specie diverse in un’isola disabitata. L’osservazione e lo studio dei video ripresi sull’isola selvaggia di Jicaron al largo di Panama avevano inizialmente fatto pensare a un comportamento di adozione, non rarissimo fra le femmine di alcune specie di scimmie. Zoe Goldsborough ha notato per prima che i piccoli di scimmia urlatrice erano presi da maschi di scimmie cappuccine, in età così tenera che rimanendo per un po’ senza poppare rischiavano di morire. Poi con altri ricercatori, esaminando e scambiandosi varie clip da camera trap, hanno stabilito che esemplari maschi di Cebus capucinus imitator stavano sistematicamente, da mesi, rapendo i piccoli delle urlatrici (Alouatta palliata coibensis), portandoli nel proprio luogo di dimora abituale, in cima ad alti alberi. In particolare, sono stati accertati 11 rapimenti in poco più di un anno. Corinna Most ha ipotizzato che i maschi cappuccini rapiscano questi piccoli così indifesi per mangiarli.

L’ipotesi, sebbene apparsa non troppo convincente a Goldsborough e colleghi, in quanto possibile con specie come i babbuini – studiati dalla Most – ma remota in questa circostanza, è stata messa alla prova. Lunghe osservazioni hanno dimostrato che i rapitori, dopo aver preso i piccoli, sembravano non essere minimamente interessati a loro: non giocavano, non li aggredivano e avevano solo minime interazioni. Secondo quanto ricostruito dai ricercatori, il primo a rapire un piccolo di urlatrice è stato Joker, un maschio cappuccino dal volto bianco riconoscibile per una cicatrice sulla bocca, che ha suggerito il nome che gli è stato dato. Si è ipotizzato, allora, che il comportamento potrebbe essere un’imitazione di quello compiuto spontaneamente da Joker, allo scopo di rinsaldare il legame sociale con lui e gli altri imitatori. L’ultima ipotesi in ordine di tempo, che si legge nella pre-pubblicazione online, è che il comportamento non abbia una spiegazione biologica, ma sia stato posto in atto per vincere la noia. In ogni caso, il primo nodo da sciogliere consiste nel capire se questi rapimenti costituiscono un unicum comportamentale, comparso per la prima volta sull’isola panamense di Jicaron, oppure si tratta di una condotta riconducibile a fenomeni diversi, ma già osservati in questi primati.

Concludendo, il mistero rimane e, con ogni probabilità, sarà svelato solo quando si disporrà di dati analitici e compiuti circa la vita e il ruolo che hanno i piccoli di urlatrice rapiti in seno alla comunità delle scimmie cappuccine. [Fonte: Max Planck Institute of Animal Behavior – Current Biology, May 19, 2025].

 

Differenze cerebrali fra elefanti africani e asiatici in contrasto con le attese. È noto che gli elefanti africani sono gli animali più grandi della terra e di dimensioni notevolmente maggiori degli elefanti asiatici, dai quali sono separati da milioni di anni di evoluzione. Ci siamo occupati molte volte dell’intelligenza di questi pachidermi, ma finora non abbiamo presentato studi anatomici comparati del loro encefalo, perché sono davvero molto rari. Ora, un team di ricerca internazionale, guidato da Malav Shah e Michael Brecht del BCCN e da Thomas Hildebrandt del Leibniz-IZW ha valutato peso e morfologia degli encefali di elefanti asiatici (Elephas maximus) che, a dispetto del “maximus” nel nome scientifico sono di taglia inferiore, e di elefanti africani (Loxodonta africana) di savana. In entrambe le specie gli esami necroscopici sono stati condotti sia su esemplari liberi deceduti in ambienti naturali, sia su esemplari deceduti in cattività.  Il confronto è avvenuto principalmente tra femmine africane e asiatiche, perché i maschi asiatici erano pochi nel campione.

Le femmine di elefante asiatico, pur essendo molto più piccole, avevano un cervello dal peso medio di 5.300 grammi, contro i 4.400 grammi delle più grandi femmine africane. Il cervelletto, invece, era in proporzione più pesante in tutti gli elefanti africani, in cui costituisce il 22% del peso totale dell’encefalo, contro il 19% degli asiatici. È interessante notare che il cervello degli elefanti cresce molto nello sviluppo dopo la nascita, all’incirca nella stessa proporzione del cervello umano. Per sapere se e quanto i dati rilevati possano spiegare le differenze cognitive e comportamentali tra le due specie, dovremo aspettare i prossimi studi, in cui si dovranno stabilire relazioni morfo-funzionali supportate sperimentalmente. [Cfr. PNAS Nexus 4 (5): 141, 2025].

 

La morte di Kanzi, la scimmia capace di comunicare in inglese, segna la fine di un’era. Sarah è stata la prima scimmia “alfabeta”, cioè un primate non umano che aveva imparato una comunicazione semplice componendo parole con delle lettere su una lavagna magnetica; il secondo è stato Washoe, che aveva imparato a comunicare mediante l’American Sign Language (“semìa sostitutiva” della lingua verbale, secondo la definizione di Virginia Volterra) e aveva trasmesso alla generazione successiva frammenti di codici comunicativi verbali umani; così che, dopo Washoe, due generazioni di scimmie della Washington University hanno conservato (sia pure in parte) la capacità di esecuzione e recezione di significati mediante sistemi di rappresentazione simbolica sviluppati dalla nostra cultura. L’ultima di queste scimmie, un bonobo (Pan paniscus) o scimpanzé pigmeo di nome Kanzi addestrato da Sue Savage-Rumbaugh ad usare simboli su una lavagna e capace di comprendere la lingua inglese, è morto all’età di 44 anni, segnando la fine di un’epoca in cui le “scimmie parlanti” amiche dell’uomo ci hanno insegnato tanto sul rapporto tra cognizione e linguaggio. [Fonte: Ape Initiative – In Memory of Kanzi, 2025].

 

Oranghi con una complessità comunicativa ritenuta in passato esclusivamente umana. Uno studio sorprendente di ricercatori dell’Università di Warwick ha documentato vocalizzi modulati da oranghi a scopo comunicativo, con una complessità strutturale stratificata ritenuta finora esclusiva della comunicazione umana. In particolare, in questi grandi primati subumani viventi allo stato naturale, è stata riscontrata la complessità stratificata detta ricorsione.

A differenza dell’accezione informatica, in cui si intende per ricorsione l’algoritmo ricorsivo, il significato operativamente attribuito alla parola “ricorsione” in questo genere di studi è il seguente: ripetizione di elementi di una lingua in modo tale da formare un pensiero o una frase comprensibile.

Il potere di questo processo consiste nel consentire alla combinazione di un set finito di elementi di generare una serie illimitata di messaggi a complessità crescente. Adriano Lameira, Chiara De Gregorio e Marco Gamba hanno rilevato nei richiami di allarme di femmine di orango di Sumatra un’organizzazione in tre livelli: 1) suoni in piccole combinazioni (primo livello); 2) queste combinazioni possono essere aggregate in insiemi più grandi (secondo livello); 3) questi insiemi possono creare aggregati ancora maggiori (terzo livello).

Rispettando un ritmo di base, come in una musica con pattern ripetuti, gli oranghi inseriscono una struttura nell’altra, creando una sofisticata struttura vocale multi-livello, in un modo che si credeva possibile solo al linguaggio umano. Questo risultato fa pensare che la struttura del nostro linguaggio/pensiero abbia un’origine filogenetica molto più antica di quanto si sia finora creduto. [Cfr. Annals of the New York Academy of Sciences – AOP doi: 10.1111/nyas.15373, 2025].

 

Definizioni identificative mediatiche come contenitori di vuoto: è ora di prenderne coscienza. Esistono abbozzi di forme di pensiero nell’implicito del flusso di comunicazione che dai media attraversa i soggetti e da questi si diffonde e ritorna in ogni dove, sulle menti delle moltitudini, coprendole come un abito gratuito e non avvertito. Uno di questi abbozzi, aborti o schemi – possiamo qualificarli a piacimento secondo il giudizio che ne diamo – è costituito da strutture collettive che definiscono categorie di persone e indicano il modo “giusto”, attuale di rapportarsi alla realtà, che consiste nel dare per implicita la cancellazione di ogni originalità, particolarità e ricchezza individuale, e gestire nel proprio immaginario il rapporto con gli altri attraverso  “contenitori di persone”: le etichette spaziano dall’appartenenza nazionale al ruolo sociale, dal sesso, alla posizione nella topologia del mercato globale, dallo status economico all’etichetta mediatica o social-mediatica. La deriva parte da molto lontano e origina dal mostruoso congiungersi, formando una strana chimera sociocomunicativa, di un pensiero politico diffuso per decenni a partire dal Sessantotto con un criterio comunicativo presto premiato e sostenuto dal vantaggio economico.

Quella linea di pensiero sessantottino è stata per decenni portata da studenti universitari a quelli del liceo, durante le loro assemblee democratiche aperte: tutto è politica. Attenzione: non “tutto può essere declinato secondo un paradigma politico”, ma “tutto è politica e niente altro”. E la maggior parte la intendeva così: se non vuoi soccombere come vittima del sistema, devi diventare parte politica attiva e identificarti completamente in quel ruolo, perché tutto ciò che rimane fuori appartiene a un’altra parte, diversa dalla tua. Senza più sapere da dove arrivava questo pensiero e quanto fosse neomarxista o compatibile con istanze neofasciste e di altre ideologie, gli interpreti degli ultimi decenni del secolo scorso e quelli dei primi due di questo secolo e millennio – pur in un inevitabile fading progressivo – hanno conservato il nucleo di appiattimento sul ruolo politico.

Questo modo del pensiero, diventato in parte atteggiamento mentale e in parte “mentalità” di un numero considerevole di persone, si è fuso con un prodotto di una pratica comunicativa considerata di valore opposto dai sostenitori dell’idea originaria del “tutto è politica”, in quanto “figlia del sistema di potere”: la categorizzazione standard e l’etichettatura di persone, popoli e paesi per facilitare la creazione di prodotti comunicativi da vendere come notiziari in tutte le forme audiovisive e cartacee.

Senza dubbio alcuno, gli Stati Uniti d’America (USA) sono stati la nazione pioniera di questo modo di trattare e diffondere a pagamento fatti e opinioni sugli accadimenti quotidiani, rompendo con la tradizione del giornalismo narrativo del diciannovesimo secolo, ricco di descrizioni, metafore, citazioni dotte, accostamenti suggestivi, voli pindarici, rilievo di ricorsi storici, interpretazioni morali e critiche fondate su principi e paradigmi del pensiero dominante o delle libere convinzioni dell’autore. Nel ventesimo secolo il contenuto informativo prevale su tutto il resto e le immagini, sempre più numerose, prendono spesso il posto delle descrizioni. Nasce il “valore informativo” delle etichette denominative, declinato in modo prototipico nei notiziari televisivi.

Così, ad esempio, il Brasile da terra di sogno e di mistero, dove una miriade di tradizioni di origine precolombiana erano contraddistinte ciascuna da una religione, un genere musicale e un tipo di danza connesso con il rito principale, dove nel folto della foresta amazzonica, accanto agli anaconda, agli uistitì, ai bradipi e ai fantastici ara giallo-blu, vi erano specie animali ancora ignote alla scienza, diventava un anonimo “paese del terzo mondo”[1], e così interi continenti venivano identificati con la loro connotazione politica internazionale o con le guerre in atto sui loro territori. L’uso pragmatico delle etichette quale “gergo tecnico comunicativo” di utilità pratica è comprensibile e apprezzabile; ciò che non va è sostituire questo “artificio di utilità” alla rappresentazione della realtà nella cultura e nell’immaginario collettivo.

In sociologia della comunicazione si è azzardata la tesi dell’origine culturale da una corrente di pensiero psicologico di grande fortuna nel Regno Unito tra l’Ottocento e il Novecento. Non si discute la plausibilità di un ipotetico collegamento, ma il ragionamento seguito dai sostenitori della tesi si fonda su una grossolana generalizzazione comune tra i giornalisti, ma invisa agli studiosi: considerare i popoli di lingua inglese come periferie culturali dell’Inghilterra. In breve: quando Sigmund Freud nel 1933 tenne a Londra le famose cinque conferenze sulla psicoanalisi, aveva a portata di mano un libro intitolato The Group Mind che, al posto dell’autore, recava la scritta “The Cambridge Psychological Library” e rappresentava pienamente la cultura psicologica dominante in Inghilterra in quel periodo: dopo una prima parte di principi generali di psicologia collettiva, il libro dedica un’ampia seconda parte alla “mente e al carattere nazionale” dei popoli e la terza ed ultima parte allo “sviluppo di mente e carattere nazionale”. Questa impostazione avrebbe improntato la cultura americana secondo la citata tesi di sociologia della comunicazione.

A noi sembra, invece, che si possa rintracciare in radici proprie statunitensi, anche solo leggendo i due volumi della Storia della Civiltà Letteraria degli Stati Uniti della UTET ma, soprattutto, studiando un po’ di storia del giornalismo americano. Ma ha poca importanza la definizione dell’origine culturale di questa operazione di appiattimento delle persone su etichette di caratterizzazione giornalistica, in quanto ciò che conta oggi è la deriva che ha portato a fare di uno strumento professionale di utilità operativa nell’ambito della comunicazione un paradigma culturale totalizzante nella mente dei cittadini del villaggio globale.

La cosa che non va è il pensare alle persone quasi solo attraverso le categorie mediatiche di comunicazione, che a volte corrispondono alle categorie con cui il potere politico e il mercato considerano tutti noi.

Le persone che incontriamo per strada sono pendolari, immigrati, impiegati statali, disoccupati, medici, turisti, operai, avvocati, studenti, architetti, pensionati, ingegneri, manovali e così via… il resto non conta. In questa brutale – perché pregiudiziale – cancellazione di identità reale sostituita dall’attribuzione di uno svilente connotato identitario di categoria, si compie una sintesi fra estremi, impossibile anche da pensare, se si prendono sul serio i significati delle parole: il singolo come interprete dell’individualismo contemporaneo e, allo stesso tempo, appiattito, massificato, omologato, annullato nella sua individualità identitaria, considerata solo un caso particolare dell’identità di categoria. Ben inteso: categoria comunicativa e del pensiero. Pensiero collettivo unificante, sospeso sul villaggio globale, a disposizione gratuita di tutti gli utenti umani che, come per una riconoscenza paradossalmente involontaria, lo propagandano diffondendolo.

La forma comunicativa si è oggettivata come parola condivisa e, così, definire una persona non stabilizzata nel suo lavoro “un precario”, mette d’accordo il sindacalista, il politico, il giornalista, ma anche la persona stessa e i detentori di altre etichette. Il problema è che, non solo la definizione entri nell’immaginario del soggetto come identità di ruolo, ma che per gli altri il senso della sua identità sia ridotto a quella forma politico-comunicativa: è un precario; poi, cosa faccia, cosa crei, cosa pensi, cosa desideri, cosa doni agli altri, quale sia il suo mondo interiore, quale sia lo scambio simbolico dei suoi rapporti umani, si dà per scontato che non valga nulla. Sono molti i contesti sociali in cui si è persa l’arte della conoscenza dell’altro, in quello scambio di esperienza umana che ha rappresentato chiave e struttura della vita sociale in tutte le grandi civiltà della storia.

Oggi nessuno si meraviglierebbe se qualcuno si presentasse dicendo: “Piacere, sono un precario”. Di fatto, già si verifica che in molte circostanze sociali interessi solo la forma connotativa politico-mediatica della persona e, dopo la presentazione, etichettata la nuova conoscenza, si può passare a parlare di ciò che i media impongono come attualità, scimmiottando o imitando inconsciamente i modi rigorosamente superficiali e politically correct dei forum mediatici, in cui il nuovo venuto esprime la sua opinione da precario, non importa se sta realizzando una grande opera d’arte, sta progettando una rapina in banca, sta per fare una grande scoperta scientifica, spaccia cocaina alle serate nelle ville dei vip, fa volontariato in ospedale, clona carte di credito o sta scrivendo un saggio su come riformare le coscienze, per il momento rimane un precario, eventualmente in attesa di ottenere un’altra etichetta mediaticamente corretta.

C’è un uomo che per tutta la sua vita, oltre ad essere stato spesso disoccupato, ha lavorato come consulente, venditore del prodotto delle sue mani, precario, prestatore d’opera a progetto e su commissione, ma ai suoi tempi, grazie al cielo, non esistevano le nostre etichette, così lo conosciamo per ciò che ha fatto: Leonardo da Vinci.

La patologia da noi rilevata non consiste semplicemente nell’adozione delle definizioni di categorie umane come strutture statiche, obbligatorie e prioritarie, ma nel fare assurgere queste forme a contenuti, di fatto cancellando i reali contenuti umani dall’orizzonte del proprio pensiero nel rapporto con gli altri. Questo è grave perché disumanizza. Queste forme sono contenitori di vuoto. È ora di prenderne coscienza. [BM&L-Italia, maggio 2025].

 

Notule

BM&L-24 maggio 2025

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Nonostante l’economia di San Paolo da primissimo mondo e il comparto turistico di Rio de Janeiro da primato mondiale.